Criticity – Futuri Urbani

Si tratta di un percorso di riflessione critica sulla città, avviatosi nella completa inconsapevolezza del punto d’arrivo ma irremovibile sin dall’inizio in merito alla necessità e all’urgenza di adottare e rinnovare una postura critica e trasformativa rispetto alla condizione della città contemporanea. Quella che era nata come una giornata seminariale interfacoltà, è divenuto poi un ciclo di conferenze online a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, e si presenta oggi nei tre volumi intitolati “città ostile”, “città fragile” e “città viva”. La collana “Futuri Urbani” in cui sono raccolti 27 contributi redatti da persone e realtà afferenti a diversi ambiti e settori disciplinari, è perciò da considerarsi non come un punto d’arrivo ma come un momento di un più ampio processo in divenire, in cui sia le finalità che le modalità di organizzazione del dialogo possano mutare ed adattarsi alle contingenze.

Di seguito il contributo del LSOA Buridda alla pubblicazione e la registrazione della presentazione:


1.0 Vivere a Genova negli ultimi vent’anni

Genova oggi sta vivendo l’apice di una trasformazione in atto da qualche decennio. Una transizione da città industriale e portuale, con un forte protagonismo operaio, che l’ha portata ad essere un vertice del famoso triangolo industriale del nord ovest produttivo. La composizione sociale prettamente formata dalle figure di operai specializzati ha comportato un complessivo avanzamento delle condizioni sociali dell’intera cittadinanza, anche se spesso a discapito della vivibilità ambientale. Con la crisi della grande produzione e la crescita della competitività commerciale di altri porti, più al passo con la globalizzazione dei traffici mondiali, l’intera città ha visto un drastico impoverimento generale e ad un crollo demografico.

È proprio nei decenni a cavallo con l’inizio del nuovo millennio che il divario tra una città di sopra e quella di sotto inizia ad aprirsi sempre di più. La precarizzazione del mondo del lavoro e la periferizzazione dei quartieri fanno venire meno il patto implicito che reggeva le due parti della città: un patto tra collettività e rappresentanza, che prevedeva sopra tutto la corretta gestione della cosa pubblica, oggi relegata a territorio di espiazione degli interessi dei grandi poteri economici.

Con l’avvento della giunta Bucci prende forma l’idea di una Genova Meravigliosa. Una città per pochi, una sorta di Coney Island per crocieristi, in cui gli abitanti rimangono ingabbiati tra giganteschi artefatti infrastrutturali e il centro storico, che si trasforma in un agglomerato di B&B e ristorantini. Questa narrazione trova la massima espressione, come in altre città, nella retorica della sicurezza e del decoro urbano, accelerando il declino demografico. Così anche i giovani qualificati fuggono, lasciando spazio ai Neet (cioè coloro che né studiano né cercano un lavoro). Dimostrazione del fatto che questa sia la conseguenza di una scelta politica ben precisa, nel giro di cinque anni Bucci ha tagliato le spese per la scuola di otto milioni e aumentato le spese per la sicurezza di nove milioni.

Dal punto di vista sociale, possiamo affermare che l’amministrazione di centrodestra ha portato al suo compimento una parabola discendente verso la totale dissoluzione del tessuto sociale tradizionale, soprattutto nei quartieri. Sedi sindacali, circoli, società di mutuo soccorso e centri sociali sono di fatto spariti dalle periferie, lasciando solo il comitato come forma di aggregazione sociale sul territorio. Tali comitati spesso però si aggregano su vertenze contingenti e iper localiste, non sopperendo ai vuoti che permangono. Vuoti come gli spazi di una città pensata per ospitare un milione di abitanti, che oggi ne conta poco più della metà.

Come abbiamo visto, questa è una parabola che ha radici lontane e già 20 anni fa, quando nacque, il LSOA Buridda pose proprio nella parola laboratorio la discontinuità con il concetto di centro sociale autogestito. Si cercò di creare non più uno spazio chiuso gestito da un unico collettivo, ma uno spazio pubblico in perenne rinnovamento e sperimentazione, costituito da una pluralità di soggetti sociali e politici in costante confronto orizzontale, con l’obiettivo di aprire alla città e ri-creare quella alternativa sociale che stava ormai scomparendo. Questa è stata forse la pratica migliore mutuata dall’esperienza del G8 di Genova da cui molt* provenivano, prima dell’occupazione degli spazi di via Bertani 1 (prima sede del Buridda).

La pratica, infatti, trovava proprio nella collettività l’elemento primario del cambiamento verso un nuovo mondo possibile, aspetto che negli anni si è trovato a scontrarsi sempre di più contro un altro concetto di possibile, quello legato alla logica capitalista del “tutto è possibile”: una categoria isolante, che trova la sua massima espressione nell’idea dell’individuo self-made.

Così, proprio l’incontro tra individui diventa un aspetto fondamentale nella vita di uno spazio sociale, sia per chi lo vive quotidianamente, sia per chi lo attraversa anche solo brevemente. La possibilità di creare momenti di scambio e di cooperare insieme al fine di raggiungere lo stesso obiettivo favoriscono una crescita costante, sia dal punto di vista individuale che sociale.

La presenza e la costanza della collettività, come detto, sono un aspetto essenziale e necessario per la vita di uno spazio sociale, ma questo progetto non troverebbe la sua realizzazione senza lo strumento del laboratorio e la pratica dell’autogestione.

2.0 Strumenti e pratiche per costruire un’alternativa

In questo senso, lo strumento del laboratorio sociale diventa una potente modalità di sperimentazione orizzontale, dove la condivisione è condizione sine qua non di crescita individuale e collettiva. Decine se non centinaia sono i laboratori ed i gruppi che si sono avvicendati nelle stanze della Buridda: gruppi teatrali, laboratori di artigianato quali cucito e falegnameria, aule studio, aule di prova e di registrazione musicale, laboratori di informatica, laboratori di autoproduzione, gruppi di promozione di eventi musicali, il primo fablab italiano, una palestra popolare di boxe ed una di arrampicata, solo per citarne alcuni. Attualmente, sono circa una quindicina i laboratori attivi, che accrescono il valore culturale e sociale dello spazio.

Il Fablab, per esempio, continua ad essere una realtà molto partecipata, che negli anni ha sicuramente subito numerosi cambiamenti senza perdere la sua identità come luogo di sperimentazione. Può essere definito come un collettivo informale di makers, appassionat* di elettronica, hardware, programmazione, lavorazione del ferro e del legno, stampa3D (autocostruita), tecnologie digitali e del mondo makers in generale, che ha deciso di portare avanti il proprio progetto in autogestione. La rivendicazione degli spazi pubblici dismessi e abbandonati, la condivisione dei saperi, delle tecnologie, l’accessibilità in sicurezza sul luogo per chiunque voglia sviluppare un progetto o anche costruirsi (quasi) qualsiasi cosa, sono gli obiettivi che quotidianamente si cerca di perseguire nel laboratorio. La partecipazione, ovviamente svincolata da un compenso economico, è aperta a chiunque voglia condividere le proprie esperienze e le proprie capacità con l* altr* utent***. Grazie a questa interazione e alla “distribuzione” dei saperi, chiunque può realizzare fisicamente le proprie idee anche senza possedere le competenze necessarie.

Un altro laboratorio molto attivo è il Circo Buridda, una palestra frequentata da amanti delle arti circensi, artist* di strada di passaggio, teatranti, sportiv* e curios* di ogni età, in cui si possono praticare in autonomia arti quali giocoleria, acroyoga, discipline aerei (tessuti, cerchio, trapezio fisso, corde lisse, danze verticali), equilibrismo, clownerie e qualunque altra attività in linea con lo spazio a disposizione. La possibilità di imparare e mettersi in gioco con le proprie abilità dipende esclusivamente da partecipant, che mettono a disposizione la propria passione per costruire uno spazio condiviso di crescita e sperimentazione.

Ogni anno, la palestra mette in scena uno spettacolo autogestito che prende il nome di Minimo, per chiunque voglia esibirsi con le proprie arti e assistere ad un evento di pura arte circense.

Negli spazi della Buridda trova anche luogo il laboratorio di Serigrafia, dove l’interdisciplinarietà e la contaminazione tra vari saperi artistici e tecnici sono gli obiettivi principali, passando dalla grafica computer al disegno tradizionale, con infine un effettivo riscontro pratico attraverso la stampa serigrafica. Tutto questo è incentrato allo sviluppo dei talenti, in modo da incrementare le autoproduzioni e l’autofinanziamento del nostro spazio, ma risulta a tutti gli effetti un momento di socialità e collaborazione dinamica per chi lo frequenta.

La possibilità di portare avanti e promuovere l’autoproduzione sono tematiche che da sempre hanno caratterizzato i laboratori della Buridda, che negli anni hanno visto declinare questa attitudine in diverse forme. In particolare, il Buridda Beer Lab vuole porre la produzione della birra artigianale come mezzo di socialità e contribuire alla rinascita di spazi abbandonati e inutilizzati all’interno della città in un reticolo urbano dove la cultura delle autoproduzioni vinicole e della birrificazione non si sono ancora sviluppate a livello locale nel pieno della loro potenzialità.

Grazie a questo fermento culturale e sociale che da sempre ha caratterizzato la Buridda, migliaia di persone si sono trovate ad attraversarla, contribuendo alla costruzione di un contesto di espressione individuale e collettiva libera dalle logiche di profitto e prestazionali.

Tutti i laboratori e i progetti che prendono vita nelle stanze della Buridda sono totalmente autogestiti, poiché crediamo che solo tramite questa pratica sia possibile creare un percorso condiviso reale. L’autogestione diventa in questo senso fondamentale, come pratica non solo collettiva ma anche individuale: una responsabilità quotidiana verso un obiettivo altro da noi, che solo tramite la partecipazione collettiva può trovare la sua realizzazione.

3.0 Dal crollo del ponte alla pandemia: costruire una rete solidale

Il 14 agosto del 2018 la città si è svegliata con la rappresentazione plastica della scadenza del patto di cui si parlava nell’introduzione. Il crollo del Ponte Morandi e la sua parte mancante diventano simbolo del mito del progresso che muore nell’incuria, trascinando con sé vite innocenti di chi quel giorno è caduto e di chi, come l* cittadin*** delle periferie interessate, rimarranno sempre lì sotto, con buona pace del “Modello Genova” che dopo poco iniziava a divenire passerella retorica e sostanziale per la propaganda della giunta.

Il Ponte Morandi, da infrastruttura che collegava le due vicine aree della fondovalle, era divenuto ormai un enorme muro che per mesi e mesi ha separato i quartieri della Valpocevera dal resto della città. Intere delegazioni cittadine di decine e decine di persone hanno visto diviso non solo il territorio, ma anche il tessuto sociale nel quale si muovevano e autocostruivano welfare.

In tale occasione, il Laboratorio Buridda si è attivato mettendo in relazione il centro della città con la parte isolata al di là delle macerie del ponte, costruendo un servizio di spesa solidale che ha portato un aiuto concreto al quartiere di Certosa e in particolare al mercato rionale. Questa azione, durata circa tre mesi, non solo ha permesso al mercato di far fronte ad una drastica diminuzione del venduto settimanale, ma ha permesso a molt* di conoscere il mercato e fare acquisti nei quartieri stessi, tralasciando la grande distribuzione e generando una aiuto reciproco mutualistico tra le persone.

Con l’inizio della pandemia, dopo neanche un anno e mezzo dal crollo del ponte, si è rivelato necessario un intervento ancora più massiccio di solidarietà attiva. Anche in questo caso, mentre i media preparavano la cornice retorica da balcone del #andràtuttobene e del #neusciremomiglioridiprima, lentamente ma inesorabilmente, ci si accorgeva come questa società fosse per troppo tempo rimasta sull’orlo del baratro. Un baratro nel quale il coronavirus ci ha cacciati, ampliando ulteriormente le distanze sociali tra chi ci guadagna sempre e comunque e chi di fatto è costretto ormai al limite della sopravvivenza: molte persone, soprattutto delle fasce sociali più deboli, persero la possibilità di portare un piatto a tavola. Insieme a decine di realtà in città, si costruirono vari livelli di intervento molto diversificati, in base soprattutto al quartiere dove prendevano vita. Dalla spesa sospesa a Sampierdarena e in Valpolcevera, alla distribuzione di pasti caldi in centro storico, fino alle merende solidali in Valbisagno, nell’estremo ponente cittadino.

Durante il confinamento, quando anche gli spazi sociali persero la loro funzione base, quella di mettere in relazione le persone, ci siamo dedicat* a far vivere un ulteriore spazio occupato, quello delle onde medie radiofoniche e dello streaming, ascoltando tutti quei soggetti sociali che, pur nella precarietà, affrontavano giorno per giorno una crisi non solo sanitaria, ma strutturale. Abbiamo cercato di creare uno strumento utile per essere non solo un megafono, ma un collettore delle varie rivendicazioni.

Questo strumento, autogestito e autocostruito, lo abbiamo individuato nella radio, dando forza all’esperimento che da qualche anno era nato all’interno delle mura del Buridda: Radiogramma, che iniziò una massiccia programmazione settimanale, attiva ancora oggi, e che trovò il suo culmine nelle assemblee radiofoniche della domenica pomeriggio, assemblee seguite da centinaia di persone e con interventi che provavano a ricostruire relazioni, dialogo e vertenze. Le relazioni coltivate in quel periodo con altre realtà simili, hanno dato vita l’anno dopo ad un network di cinque radio (Radiogramma, Radio Spore, Radio Forte e Radio Wombat): la Ciurma Pirata della modulazione di ampiezza.

Un ultimo progetto, ma non meno importante, nato durante il lockdown, spinto dalle necessità oggettive che quel periodo di chiusura ci ha messo davanti, è quello che abbiamo chiamato Energivori. Un ragionamento che ha coinvolto dapprima tutto il collettivo, sviluppato praticamente dal Fablab Genova, e che sta continuando il suo percorso con il coinvolgimento di altre realtà come ISF (Ingegneri Senza Frontiere), CIMA Foundation, Italian Linux Society.

Come tutti i temi importanti ai giorni nostri, quello del fabbisogno energetico e degli effetti che comporta sull’ecosistema casca, molto velocemente, nella polarizzazione: grande ottimismo tecnofilo da una parte e visioni bucoliche dall’altra. Spesso la risposta a cui si giunge è il problema è sempre (di) qualcun altro.

Pertanto, per comprendere meglio il problema, approfittando della chiusura, abbiamo installato un sistema di misura dei consumi e, dati alla mano, ci siamo dedicat* anima e corpo nel migliorare, per quanto possibile, la situazione dello spazio. L’obbiettivo è quello di restituire in maniera semplice un monitoraggio costante dei consumi, per poterli anche gestire attraverso l’autoproduzione di energia elettrica, grazie ad un impianto solare fotovoltaico che stiamo installando.

4.0 “Quello che abbiamo è solo una piccola parte di quello di cui abbiamo bisogno”

Purtroppo, le attività della Buridda e il grande flusso di persone che quotidianamente la attraversa non bastano a convincere le giunte che si sono succedute negli anni dell’importanza degli spazi sociali in città. Negli ultimi anni, infatti, la città ha assistito allo sgombero di altri tre spazi occupati in città, dopo la Buridda nel 2014: Pellicceria, Utopia e Terra di Nessuno. E il progetto non si ferma qua: sono di anni ormai le voci di vari esponenti delle giunte che reclamano a gran voce lo sgombero degli altri spazi rimasti attivi in città.

Anche a noi è toccata la stessa storte, di nuovo. All’inizio di marzo, infatti, siamo venuti a conoscenza della volontà da parte dell’Università di Genova di vendere lo stabile di Corso Montegrappa 39, attuale sede della Buridda, ad Aliseo (Agenzia Ligure per gli studenti e l’orientamento), con l’intenzione di costruire dei dormitori per student*. Questa notizia ci risulta tristemente ironica, dal momento che lo sgombero da via Bertani 1 vedeva contemplato lo stesso progetto e che adesso, dopo otto anni da quel 14 giugno, lo stabile giace ancora in condizioni di disastroso abbandono.

L’obiettivo dell’università, in questo senso, non è certamente quello di investire in una città a misura de student*, tantomeno di investire in un miglioramento reale dell’istruzione e del sistema culturale in generale. Al contrario, si è fatta portavoce anch’essa di quelle logiche capitaliste di profitto che si fondano sulla formazione di individui idonei ad essere inghiottiti dal mercato del lavoro.

Sgomberare gli spazi sociali, che accolgono da anni le più varie generazioni di persone promuovendo cultura, senza riconoscerne il valore storico e sociale che hanno avuto e continuano ad avere nella rete cittadina e non solo, significa non riconoscere i bisogni reali della città; significa preferire il degrado sociale e culturale alla costruzione di una realtà collettiva che tenga conto dei bisogni di tutt*.

In quasi vent’anni anni di occupazione, infatti, la Buridda è riuscita a rispondere alle esigenze di una parte importante della città. Attraverso la pratica dell’autogestione e lo strumento del laboratorio, è riuscita ad aggregare pezzi di generazioni diverse che si ritrovano nella comune voglia di fare e creare al di fuori degli schemi standardizzati del consumismo imperante.

La Buridda non è solo un luogo.

È uno spazio fatto di persone, che non accetta lo stato di cose e costruisce giorno per giorno un modo per cambiarle, creando un’alternativa ancora una volta possibile.

È la creazione di un percorso replicabile, non solo atto a risolvere i nostri problemi, ma a rendere coscienti l* altr* che sia possibile emergere dall’individualismo per il diritto gratuito alla vita.

È capire il peso del collettivo rispetto all’individuo e, contemporaneamente, arricchirsi della diversità che ciascun singolo vi apporta, con le sue peculiarità, con la sua storia, con il suo intento e le sue conoscenze.

È mettere il valore del sapere al primo posto, per confrontarsi e ritrovarsi, sconfiggere l’ignoranza e l’apatia e capire i meccanismi del mondo in cui viviamo, al fine di sviluppare vera libertà fuori delle logiche restrittive della società.

L.s.o.a. Buridda
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