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Laboratorio Sociale Occupato Autogestito
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Bombarderanno stanotte? Domani? Tra un mese? Nessuno sa rispondere a Kobane, ma “il nostro morale è alto, non ci piegheremo”, ribadiscono le forza di difesa curde che non si sono mai piegate in 8 anni di guerra. Eppure, davanti a loro – e al nostro imperdonabile silenzio – c’è il rischio di un’altra catastrofe umanitaria nel Nord della Siria, dopo l’annuncio di Erdogan e l’abbandono di Trump, definito “una coltellata alle spalle” dall’esercito che ha battuto Isis con un enorme tributo di sangue, 11mila morti, 22mila feriti.
Unione Europea e Onu balbettano, “ammoniscono” senza prefigurare alcuna soluzione. D’altronde, non ci sono state parole di condanna nemmeno la scorsa settimana quando il presidente turco ha presentato all’Assemblea generale dell’Onu il suo nuovo progetto per rifugiati. Erdogan chiama “Safe Zone” quella striscia di terra (lunga 480 chilometri e profonda 30) su cui costruire ex-novo 140 villaggi in cui trasferire un milione di profughi siriani. In realtà, è un modo per mascherare una sostituzione demografica nell’area a maggioranza curda tra Siria e Turchia. Un progetto per rifugiati che crea altri rifugiati. Paradossale come le parole usate: la Turchia schiera 300 mila soldati e chiama l’operazione “Sorgente di Pace”, esattamente come due anni fa definì i bombardamenti su Afrin “Ramoscelli d’ulivo”. Basta ricordare quei terribili 55 giorni di bombardamenti per sapere cosa accadrà: morti e profughi. Violenze sessuali, torture, rapimenti.
Nelle stesse ore in cui Trump pare fare marcia indietro, fonti locali su Twitter diffondono le immagini delle basi americane smobilitate, mentre la Turchia sta schierando i suoi corpi d’élite lungo il confine, nella zona tra le cittadine di Tal Abyad e Ras al Ain, le stesse da cui entrò Isis per tentare di prendere Kobane, città simbolo della resistenza. Lì, e in tutte le città lungo il confine, fino a Qamishlo, davanti all’ufficio dell’Onu, migliaia di civili – arabi, curdi, siriani, yazidi, assiri – stanno protestando. Si appellano anche a noi.
E noi rispondiamo! La loro rivoluzione è la nostra rivoluzione.